Vajont le frane e le onde di Agostino Sacchet

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dave
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Vajont le frane e le onde di Agostino Sacchet

Messaggio da dave »

Parlando di libri, mi rivolgo a chi di voi ha letto l'ultimo libro di Sacchet: vajont le frane e le onde. Mi piacerebbe avere il vostro parere in merito alla nuova interpretazione dei dati che fornisce l'autore, in particolare sulla discesa di due frane distinte anziché in un blocco unico come ritenuto fino ad oggi dalla totalità di altri autori. Devo dire che l'analisi che fa Agostino è molto dettagliata e si basa sull'incrocio di molti dati, dal sismografo di Pieve ai dati della centrale di Soverzene fino ad arrivare all'orario indicato dagli orologi ritrovati e in esposizione nel museo al cimitero di Fortogna. Personalmente ho qualche perplessità su questa nuova ricostruzione. Un dubbio mi viene guardando l'attuale conformazione della frana, facendo riferimento soprattutto al solco del rio massalezza, perfettamente riconoscibile, e al suo sbocco, conservato intatto e ancora oggi visibile. Il mio pensiero è che se fosse caduta la frana in due diversi blocchi, prima ad ovest del rio e poi la parte ad est, la zona del massalezza non sarebbe così ben riconoscibile come lo è oggi. Ipotizzo che la parte ad est, nella sua discesa successiva, avrebbe dovuto in parte cancellare le tracce del rio, ed il suo sbocco dovrebbe essere essere quantomeno dissestato e disallineato rispetto alla parte occidentale. Invece sembra tutto perfettamente allineato, sia la parte ovest sia quella ad est. Personalmente sono portato a rimanere sull'ipotesi di caduta contemporanea della frana. Magari con velocità diverse ma comunque simultaneamente. Cosa ne pensate?
colomber
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Re: Vajont le frane e le onde di Agostino Sacchet

Messaggio da colomber »

Senza entrare nei dettagli della ricostruzione di Sacchet e conscio che non si dovrebbe fare, rispondo alla tua domanda con una domanda che pongo anche a me stesso.
Noto che la frana si è mossa in modo omogeneo a velocità crescente su tutta la sua larghezza fino alla caduta, è ipotizzabile che proprio al momento del distacco finale "qualcosa" abbia trattenuto il lobo est rispetto a quello ovest, in caduta rapida, con una resistenza tale da provocare il conseguente taglio dell'intera superficie di contatto tra le due ipotetiche parti della frana, dello spessore e lunghezza di centinaia di metri?
Comunque sia andata, sono dell'opinione che si tratti di un dettaglio men che marginale nel quadro del disastro.

Restando sull'argomento, ma cambiando libro, trovo interessanti le considerazioni esposte da Pierluigi Favero in "Ipotesi sul Vajont - Rilettura tra scienza e cronaca di una inondazione prevedibile e un disastro evitabile".
I molti eventi che singolarmente avrebbero potuto condizionare le scelte che hanno condotto all'epilogo disastroso sono analizzati oggettivamente, indirizzando il lettore alla conclusione espressa nel sottotitolo, per me condivisibile, che l'inondazione fosse prevedibile e il disastro evitabile.
Mi permetto solo un appunto, marginale nel contesto generale del libro, in difesa di un autore che mi è caro. Al termine del capitolo 7, "Le Responsabilità", Favero scrive:
Anche un grande scrittore come D. Buzzati, pur essendo bellunese, non trovò di meglio di additare la natura maligna di stampo leopardiano come causa del disastro piuttosto che l'errato umano rischio calcolato.
Il riferimento è presumibilmente all'articolo "NATURA CRUDELE", apparso in terza pagina del "Corriere della Sera" di venerdì 11 ottobre 1963, famoso per il brano spesso citato:
"Un sasso è caduto in un bicchiere colmo d'acqua e l'acqua è traboccata sulla tovaglia..."
Buzzati era si Bellunese di nascita, ma viveva a Milano e tornava a Belluno per le ferie estive, che trascorreva arrampicando nelle Dolomiti. Lontano quindi dalle ordinarie vicende bellunesi, è presumibile che del Vajont sapesse poco o nulla, e che chiamato a scriverne l'indomani della tragedia, in buona fede, da persona limpida qual'era, abbia sposato nel suo articolo l'ipotesi che andava per la maggiore il giorno dopo. L'incipit del suo articolo era molto più sofferto ed empatico di quella frase, che, decontestualizzata, suona terribilmente fredda e distaccata:
Stavolta per il giornalista che commenta non c'è compito da risolvere, se si può, con il mestiere, con la fantasia e col cuore. Stavolta per me, è una faccenda personale. Perché quella è la mia terra, quelli i miei paesi, quelle le mie montagne, quella la mia gente. E scriverne è difficile. Un po' come se a uno muore un fratello e gli dicono che a farne il necrologio deve essere proprio lui.
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dave
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Re: Vajont le frane e le onde di Agostino Sacchet

Messaggio da dave »

colomber ha scritto: 03 mag 2022, 12:04
Comunque sia andata, sono dell'opinione che si tratti di un dettaglio men che marginale nel quadro del disastro.
Ai fini del disastro forse riveste un dettaglio marginale, ma dal punto di vista storico e scientifico a mio avviso ha una grande importanza. Vorrebbe dire rimettere in discussione o addirittura smentire tutte le ricostruzioni, gli studi, gli esperimenti effettuati dopo il disastro e le conclusioni di scienziati e studiosi in oltre 50 anni di storia, visto che si basano tutti sull'assioma della caduta in un unico blocco. E questo secondo me è di grande importanza... Sarebbe da riscrivere l'intera parte storico-scientifica del Vajont.
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Canale Camuzzoni
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Re: Vajont le frane e le onde di Agostino Sacchet

Messaggio da Canale Camuzzoni »

Credo valga la pena di rileggere l'articolo di Buzzati nella sua interezza. Lo riporto di seguito.

Stavolta per il giornalista che commenta non c'è compito da risolvere se si può, con il mestiere e con la fantasia e col cuore. Stavolta per me, è una faccenda personale perché quella è la mia terra, quelli i miei paesi, quelle le mie montagne, quella la mia gente. E scriverne è difficile!
Un po’ come se a uno muore un fratello e gli dicono che a farne il necrologio deve essere proprio lui.
Conosco quei posti così bene, ci sono passato tante centinaia e forse migliaia di volte che da lontano posso immaginare tutto quanto come se fossi stato presente.
Per gli uomini che non sanno, per i paesi antichi e nuovi sulla riva del Piave, là dove il Cadore dopo tante convulsioni di valloni e di picchi apre finalmente la bocca sulla pianura e le montagne per l'ultima volta si rinserrano le une alle altre, è soltanto una bellissima sera d'ottobre.
In questa stagione l'aria è lassù limpida e pura e i tramonti hanno delle luci meravigliose. Ecco, il sole è scomparso dietro le scoscese propaggini dello Schiara, rapidamente calano le ombre, giù dalle invisibili Dolomiti comincia a soffiare un vento freddo, qua e là si accendono e si spengono i lumi, i buoi si assopiscono nelle stalle, gruppetti operai dalla fabbrica di faesite pedalano canterellando verso casa, un'eco di juke box con la rabbiosa vocetta di Rita Pavone esce dal bar trattoria con annessa colonnetta di benzina, rare macchine di turisti passano sulla strada di Alemagna, la stagione delle vacanze è finita. Proprio di fronte a Longarone la valle del Vajont è già buia, più che una valle è un profondo e sconnesso taglio nelle rupi, un selvaggio burrone, mi ricordo la straordinaria impressione che mi fece quando lo vidi per la prima volta da bambino, a un certo punto la strada attraversava l'abisso, da una parte e dall'altra spaventose pareti a picco.
Qualcuno mi disse che era il più alto ponte d'Italia, con un vuoto sotto, di oltre cento metri. Ci fermammo e guardai in giù con il batticuore.
Bene, proprio a ridosso del vecchio e romantico ponticello era venuta su la diga e lo aveva umiliato.
Quei cento metri di abisso erano stati sbarrati da un muro di cemento, non solo; il fantastico muraglione aveva continuato ad innalzarsi per altri centocinquanta metri sopra il ponticello e adesso giganteggiava più vertiginoso delle rupi intorno, con sinuose e potenti curve, immobile eppure carico di una vita misteriosa.
Notte. Due finestre accese nella cabina comandi centralizzati, nell’acqua del lago artificiale si specchia una gelida fascetta di luna, ronzii nei fili, giù nel tenebroso botro lo scrosciare dello scarico di fondo, a Longarone.
Faè, Rivalta, Villanova dormono, ma c'è ancora qualcuno che contempla il video, qualcuno nell'osteria intento all'ultimo scopone. In quanto alle montagne esse se ne stanno immobili, nere e silenziose come il solito.
No, a questo punto l'immaginazione non è più capace di proseguire, la valle, i monti, i paesi, le case, gli uomini, tutto riesco ad immaginare nella notte tranquilla poiché li conosco così bene, ma adesso non bastano le consuetudini e i ricordi. Come ricostruire ciò che è accaduto, la frana, lo schiantamento delle rupi, il crollo, la cateratta di macigni e di terra nel lago? E l'onda spaventosa, dal cataclisma biblico, che è lievitata gonfiandosi come... Sì come un immenso dorso di balena, ha scavalcato il bordo della diga, è precipitata a picco giù nel burrone, avventurandosi, terrificante bolide di schiuma, verso i paesi addormentati. E il tonfo nel lago il tremito della guerra, lo scrole dell'acqua impazzita, il frastuono della rovina totale, coro di boati stridori, rimbombi, cigolii, scrosci, urla, gemiti, rantoli, invocazioni, pianti? E il silenzio alla fine, quel funesto silenzio di quando l'irreparabile è compiuto, il silenzio stesso che c'è nelle tombe?
Un sasso è caduto in un bicchiere colmo d'acqua e l'acqua è traboccata sulla tovaglia. Tutto qui. Solo che il bicchiere era alto centinaia di metri e il sasso era grande come una montagna e di sotto, sulla tovaglia, stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi. Non è che si sia rotto il bicchiere quindi non si può, come nel caso del Gleno, dare della bestia a chi l'ha costruito. Il bicchiere era fatto a regola d'arte, testimonianza della tenacia, del talento, e del coraggio umano.
La diga del Vajont era ed è un capolavoro perfino dal lato estetico.
Mi ricordo che mentre la facevano l’ingegnere Gildo Sperti della S. A. D. E. mi portò alla vicina centrale di Soverzene dove c'era un grande modello in ottone dello sbarramento in costruzione ed era una scultura stupenda, Arp e Brancusi ne sarebbero stati orgogliosi.
Intatto, di fronte ai morti del Bellunese, sta ancora il prestigio della scienza, dell'ingegneria, della tecnica, del lavoro.
Ma esso non è bastato. Tutto era stato calcolato alla perfezione, e quindi realizzato da maestri, la montagna, sotto ai lati, era stata traforata come un colabrodo per una profondità di decine e decine di metri e quindi imbottita di cemento perché non potesse poi in nessun caso fare dei brutti scherzi, oppure apparecchiature sensibilissime registravano le più lievi regolarità o minimi sintomi di pericolo. Ma non è bastato. Ancora una volta la fantasia della natura è stata più grande ed asciutta che la fantasia della scienza. Sconfitta in aperta battaglia, la natura si è vendicata attaccando il vincitore alle spalle. Si direbbe quasi che in tutte le grandi conquiste tecniche stia nascosta una lama segreta e invisibile che a un momento dato scatterà.
Intatto, e giustamente, è il prestigio dell'ingegnere, del progettista, del costruttore, del tecnico, dell'operaio, giù fino all'ultimo manovale che ha sgobbato per la diga del Vajont, ma la diga, non per colpa sua è costata diecimila morti. I quali morti non sono della Cina o delle Molucche, ma erano gente della mia terra che parlavano come me, avevano facce di famiglia e chissà quante volte ci siamo incontrati e ci siamo dati la mano e abbiamo chiacchierato insieme. E il monte che si è rotto e ha fatto lo sterminio è uno dei monti della mia vita il cui profilo è impresso nel mio animo e mi rimarrà per sempre. Ragione per cui chi scrive si trova ad avere la gola secca e le parole di circostanza non gli vengono. Le parole incredulità, orrore, pietà, costernazione, rabbia, pianto, lutto, gli restano dentro col loro peso crudele.

Dino Buzzati (Corriere della Sera, 11 ott. 1963)
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